
Maman bozorg, Mordeshur, Kos, Khastegar, Chub-e do sar gohi, Chub-e do sar tala, Ezafebar, Anar, Gharibe dust, Sherkat naft, Baba ad dad, Narmkonande, Juju, Char rah, Dorugh, Azadi.
Sedici parole che come in un’imboscata, una alla volta, hanno assalito Mona Nazemi.
Sedici parole nella sua lingua madre dalle quali non riesce a difendersi. È completamente in loro potere.
Poi un’intuizione, un’ispirazione… Mona ne traduce una. L’incantesimo è spezzato, la parola disarmata. Traducendo tutte e sedici le parole Mona le libera, le toglie dalla loro solitudine e allo stesso tempo rende libera se stessa. Libera dall’inganno (Dorugh) che tutte queste parole non tradotte avevano alimentato da quando era nata, in Iran, 35 anni prima.
Una delle cose più belle di Sedici Parole di Nava Ebrahimi è che anche noi lettori siamo chiamati a tradurre queste parole. Lo facciamo insieme a Mona, viaggiando attraverso l’Iran, paese affascinante ma estremamente contraddittorio e difficile, e viaggiando attraverso i suoi ricordi.
Ma perché prima di allora Mona non era mai riuscita a tradurle queste parole? Come dice lei: “Forse avevo paura di trovarmi davanti alla parola tradotta, alla parola nuda”. La verità e la libertà che ne deriva possono spaventare. Ma la morte della “nonna”, e quindi il viaggio in Iran per darle un ultimo saluto, si trasformano per Mona in un’occasione di confronto con le sue origini e la storia della sua famiglia.
Si confronta con il suo passato (e con quello dei suoi cari), un passato in verità ancora molto presente.
Ma si confronta anche con il proprio presente, un insieme di situazioni non complete, solo accennate: lavoro, relazioni, sentimenti, identità.
La speranza è che questo confronto le dia gli strumenti per costruirsi un futuro definito, più consapevole. Il libro si conclude con la fine dell’anno e l’imminente inizio di quello nuovo… Che possa essere per Mona un inizio davvero in Azadi!